Gio Ferri

Letterale

A Gabriella Galzio

Lesa sul Lago Maggiore, 27 febbraio 2012

Cara Gabriella,
prendo e riprendo La discesa delle Madri: la poesia che conta va centellinata.

La discesa ancora una volta reca il fascino della tua intelligenza e della tua scrittura sapiente e unica: questa è una delle opere tue più ricche di modernissima classicità….. Una primigenia visione del mondo prestata alla vita da una cosmologica maternità: sangue, mito, rito e mistero. Passato arcaico e avvenire nascente in un battito fetale. Mi colpisce la comunanza con una delle mie ‘antiche’ e amate poetesse del primo Novecento, Cécile Sauvage, che ho più volte tradotto o meglio ‘ricreato’: non so se tu abbia mai letto quelle mie ricreazioni, che ti invio a parte, assieme ai quattro libri dell’Assassinio del poeta in cui la Sauvage è pure ricordata. Ma di questo Assassinio forse già sai qualcosa: te l’ho già inviato a suo tempo? Si tratta di un interminabile poema (definizione certo esagerata!!), per il quale sto lavorando ora al quinto volume. Confido che tu abbia voglia nel tempo di scorrerlo.

Ritrovo in te ora chiaramente (seppur misteriosamente…) espresso quel fare anima (che a suo tempo, e mi scuso, non fu giustamente apprezzato dal mio materialismo). Ora, pur non venendo del tutto meno alle mie convinzioni, lo rileggo come fare (poiéin), generare, partorire la materia purissima e primigenia di cui è fatto l’animale, l’animato, l’animabile: l’uomo, la donna, e le loro presenze ammantate da virginali assenze. Quella luce naturale che dobbiamo chiedere al Mistero, al Cosmo (spirituale o biologico che sia) secondo il detto citato in esergo di Paracelso: Chiunque si appresti a quell’eternità / di cieli dovrà tornare, nolente o furente / ai Grandi Misteri. Misteri delle cose, delle nature, che, riconosci estatica, sognante (assopita), toccando, al ritmo quieto di fluenti endecasillabi, terra argilla roggia:  così che per te è tutto naturale in questo scorrere… tutto naturale quasi un sorgere… ‘Forma fluens’ e metamorfosi.  Così è la dolcissima amorosa apparizione di Ci sarà una bellezza anche per me…   

Conturbante e appassionante è la poesia complessa, problematica, battente (al cuore della natura) di pagina 107, in cui affermi con amante protervia e fluente immaginismo : Sarò mondo. / Sarò assedio. Perché il poeta (cuore d’infante) saggia con prudenza… ha tracce di sé… non può  disperderle…

Ma sono poveri accenni che vado appuntando via via che leggo e rileggo: tanto altro va detto, accogliendo il Congedo “disarmati e talvolta gioiosi”, e riprendendo ancora le sapienti Note di poetica. Mentre va vissuta la generale potente drammaturgia corale:  “energia sovrabbondante” la definisce l’amico Kemeny.

            Scritta a Gabriella Galzio in occasione dell’uscita del suo poemetto “La discesa alle madri” (Arcipelago Edizioni, Milano 2011). Prefazione di Tomaso Kemeny.

 

 

 

 

A Tiziano Salari

Lesa sula Lago Maggiore, 14 maggio 2012
            Caro Tiziano,
ho letto e rileggo “Fuori di sesto”. E già l’esergo apre a molte suggestioni… amletiche: «Il mondo è fuori di squadra: che maledetta noia / Essere nato per rimetterlo in sesto!». Mario Fresa, nella sua puntuale e direi appassionata postfazione, dà ragione di questa lotta con i marosi umani, personali e collettivi, per poter riprendere la navigazione al timone di un naviglio sballottato nella tempesta. Parafrasandolo potremmo ripetere che «questi tuoi versi emergono con la potenza della Necessità… e risorgono… dai buchi neri di un’esistenza che si profila come un’accesa febbrile contesa mortale…». E definisce quindi, Fresa, questa poesia come disorientamento. Aggiungerei, convinto, che sovente la poesia in generale dichiara la sua aspirazione formale proprio rimettendo, illusoriamente ma necessariamente in sesto, il tempestoso navigare della vita… verso la morte… Vuol dire infine resistere alle «lacerazioni e ai dissolvimenti» nei quali, tra prese di coscienza, volontà di riscatto e fughe, si dipana drammaticamente… quella marcia esistenza che corrompe la Danimarca…

Tuttavia non credo, in verità,  che puranche una provvisoria soluzione possa trovarsi infine «nella sospesa beatitudine dell’ora dei demoni meridiani…». Ma allora la necessità della poesia, come generalmente vogliamo considerarla, cosa mai ci starebbe a fare? Che ci starebbe a fare se in conclusione «dal nulla andiamo verso il nulla»?

Voglio ancora una volta, modestamente e senza illusorie pretese (troppe volte ne ho detto ripetutamente altrove), eccepire che il nulla del quotidiano, della memoria storica e della storia medesima (leggo in Hotel Axelnel divenire noi postumi di tutto il bene e il male della Storia…)  trova di contro nel nulla epifanico e metamorfico della parola poetica la sua petrosa verità. Verità inspiegabile, secondo luogo comune, se non nel dolore, nella coinvolgente paura della bufera. Verità accertabile (fuor d’ogni velleitaria ir-ragionevole pretesa logica e palingenetica) sulla, nella, materia della forma. Il lamento, in poesia, non trova consolazione (ché non è compito per altro della poesia stessa), sebbene risorga dalla bufera per approdare (qualità rara) alla dismisura della parola: unica… quella purificata (perciò in-significante) dagli orpelli della retorica prammatica, disperante o persuasiva …  Parola che pretenda d’essere in , non strumentalizzabile nemmeno a livello psicologico. In quanto, lo reciti,  penosa [è] l’impotenza /  delle consolazioni.

È fin troppa antica convinzione questa della forma, del segno non tanto come àncora,  di salvezza, quanto di inspiegata coscienza di sé nella traccia indelebile e inarrestabile. Nel suo presente divenire.

Mentre apprezzo le pur ragionevoli (se non sentimentalmente pessimistiche), acute,
considerazioni di Fresa, vado tuttavia sfogliando con estrema partecipazione la tua raffinata risorsa poetica alla ricerca di quella pur mutevole (perciò ricca e formalmente appagante) soluzione formale che giustifichi il mettere in verso (in sesto … sestante alla mano) quella verità del nulla prolifico (come l’ho inteso) che non ha bisogno di giustificazioni: perché è, e basta. Come Dio, che è, e basta.

Trovo sovente quel che cerco soprattutto nelle strofe delle parti seconde che caratterizzano sempre le strutture segniche in cui si articolano le diverse poesie:
            … la voce cade nel biancore / di una parola erta alla frontiera / di mondi scomparsi, l’abisso / dell’essere sul bianco immacolato.
            … battevano il senso su cartigli invisibili…
            … i termini di un’antica mistura // di suoni dissonanti dal colore / incerto e vocaboli straziati dal senso / perduto.

È quel senso / perduto entro personalissime regole formali (enjambement, iterazioni, velate allitterazioni, fantasmatiche immagini… e oniriche…), che testimonia il riscatto: la disarticolata, per quanto apparentemente lapidaria, eversione del segno, che il senso, tanto diverso da quello perduto, ritrova in sé. Nel rinascere della parola tanto segnata (incisa, incistata) sulla pagina:
ero fuori dai giochi dell’inizio / trasportato dagli eventi del declino / dei tempi, naufrago, in un remoto vicolo // a compitare simboli rigettanti / il senso evaporato dell’essere / dagli ultimi verso i primi // in un eterno gioco di rimessa?

Il gioco di rimessa è il gioco del segno sull’oscura pagina… bianca… Il gioco e la contraddittoria e metamorfica esperienza delle immagini mute che recuperano materialisticamente (vale a dire nella materia tangibile della scrittura) il senso evaporato dell’essere. Le rovine medesime (in mezzo alle quali rimescolo l’inafferrabilità del senso) non sono la traccia inesorabilmente vera delle cose (degli eventi) e del loro passaggio, quando siano le cose, comunque, il momento stesso dell’approdo?  Il fatto stesso che manipoli la materia-parola per dichiarare la perdita di senso è la prova – pur essa vecchia storia! – che il senso c’è: ed è appunto nel bulino della parola che incide la pagina.

Mille altri detti… andrebbero detti, leggendoti! Come sempre la tua capacità d’incisore assai stimola il lettore (al quale piaccia adoperarsi in proposito) alla pretesa di essere,  comunque. E propriamente, e forse solamente, nell’ambiguità della poesia.

Rammento un paio di versi di Cavalcanti: «parole mie disfatte e paurose / là, dove piace a voi di gire, andate».

Scritta a Tiziano Salari in occasione dell’uscita della sua raccolta di poesie “Fuori di sesto” (Neos Edizioni, Torino 2012)

 

 

 

A Cesare Viviani

Lesa sul Lago Maggiore, 21 maggio 2012

Caro Cesare,
leggendo Infinita fine non ho potuto fare a meno di riprendere subito le opere di Orazio alle quali (sorretto il mio povero latino dalle poetiche traduzioni di Mario Ramous)  sovente mi affido con grande piacere e con infinita malinconia … inseguito dai mesi… spinto dagli anni e dalle loro vane aggressività:

« Perché con forza a tanto miriamo, se breve / è la vita? Perché cerchiamo nuove terre / al fuoco di altro sole? L’esule non può / fuggire anche sé stesso / … / Più veloce dei cervi, più veloce d’euro / che scatena tempeste, l’angoscia sfibrante / anche le navi  da guerra assale e travolge / l’orda dei cavalieri. / Un cuore che gode del presente, non deve, / preoccuparsi del domani, / ma le amarezze / tempera con un sorriso: felicità perfetta non esiste…».

Mentre tu dici:

I grandi della terra / non usano parole memorabili / né compiono gesti esemplari / ma discreti, consueti / se ne stanno appartati dove la terra / li ha fatti nascere, passano la vita, / sanno bene / che non resta memoria di niente.

Tuttavia aggiungi (ed è il senso ultimo di questa tua poesia):

Ritorniamo a credere alle divinità, / se tutto questo sforzo di pensiero / sulle pietre, sui ghiacci, sui reperti / non ha dato esiti. /… / … le divinità ci accompagnano generose / dalla mattina alla sera, / parlano con noi, consigliano, / e rendono sopportabile il silenzio, / l’abbandono, la fine.

E Orazio sognando la musa celeste invoca:

«Discendi dal cielo e qui con il tuo flauto intona / un canto solenne, Calliope mia regina, / … / Mi sembra di udire, mi sembra di vagare / nella foresta sacra, dove amene / scorrono le acque e spirano le brezze…».

C’è comunque, mi pare, nella tua poesia rivolta alla quiete del giorno e della fine, una accettazione panica dell’attimo, rapido, fuggente nella sua stessa presenza, l’attimo forse ultimo:

Non c’era pensiero / nella distesa dei campi, / ora la contentezza tormentava, / e solo ciò che non era mai stato / era vivo. 

E Orazio richiama, fra le divinità, Calliope, con il suo canto solenne, tuttavia quieto, quasi silente, come lo scorrere delle acque e il soffio delle brezze. Così in te, malgrado la coscienza del niente non si può non riconoscere la continuità dell’essere in quella divinità che diviene visibile e tangibile, giorno dopo giorno: la parola e la sua infinitezza.  La parola della poesia che appunto con te e in te, e in noi, s’inscrive tramite l’incisione dell’intimo gesto di scrittura. La fine vicina si fa infinita e la poesia scoprendo la bellezza ci dona una sospensione nell’infinita fine, là dove lente e pacifiche scorrono le acque:

La bellezza sospende la condanna. / Basta guardare fuori. / Intanto la natura dice: / “Non ho mai fatto sforzi per la bellezza”.

Ma non è solo, e non sempre, nei temi che tu solleciti, almeno per me, la memoria di Orazio: la ragione è propriamente, per l’appunto, nella forma di scrittura. Quel discorrere facile (apparentemente facile) che oscilla tra carmina ed epistolae – la contenuta esaltazione estatica e insieme l’amicale discorsività verso un noto (Luzi, per esempio) o meno noto, o invisibile, interlocutore. L’immagine inusuale e ambigua (perciò… solo apparentemente facile):

Perché non innaffiare le tombe / sperando / in una più rapida dissoluzione?

E si può ascoltare, per lo più, l’andante ritmico di una costruzione sintattica  piana, corretta e accattivante, rispetto al disordine asintattico di tanta poesia del ‘900: ciò in quanto qui non c’è rivolta in atto, bensì c’è un atteggiamento di misurata accettazione di fronte alla inesorabilità cosmologica del nostro destino:

Ė definito a parole il carattere liscio / di questa piana, o è definito / da sedimenti alluvionali / con precisione uguale / a quella delle parole’…

I sedimenti alluvionali, le stratificazioni verbali giustificano  il ricorso all’enjambement che apre pause momentanee di meditazione e spazi atemporali millenari.

Infine credo che questa raccolta possa leggersi anche come un Libro d’ore, in quanto

Si dice che l’insistenza / con gli uomini non premia, / ma con Dio sì!

Scritta a Cesare Viviani in occasione dell’uscita della sua raccolta di poesie “Infinita fine” (ed.Einaudi, Torino 2012)

 

 

 

A Arturo Schwarz

Lesa sul Lago Maggiore, 3 giugno 2012

Caro Schwarz,
sto leggendo e rileggendo – questa raccolta è per sua natura assai ampia – Tutte le poesie, quasi (Moretti & Vitali ed., 2007).Il senso formale e insieme potentemente intimo della tua vicenda poetica (plurilingue) è esaustivamente evidenziato dalla acuta introduzione di Anna Sikos. E, aggiungerei, la forte espressività della tua scrittura, dichiarata fin dalle prime poesie del 1941, altro non è che la misura della tua straordinaria personalità – che si rispecchia non solo nell’opera poetica, bensì in tutto il lavoro della tua vita di autore e di intellettuale, di critico e storico dell’arte del ‘900, di collezionista e gallerista scopritore di grandi talenti e, ancora, di puro e originale combattente della grande utopia anarchica intesa come aspirazione assoluta alla libertà. Libertà che infine trova nell’amore, interpretato in tutti i sensi personali e collettivi, ideali e fisici, la propria massima aspirazione e concreta realizzazione vitale.

Certamente la tua poesia soprattutto rivela al lettore una coinvolgente vicenda che temporalmente va ben al di là della metà di un secolo. Quel Secondo Novecento, e oltre, che ha promosso  (checchè ne dica l’ignoranza di certi odierni qualunquisti detrattori) una eccezionale dismisura della coscienza storica, fra tragedie e riscatti intellettuali e artistici di irreversibile innovazione. E tu ne offri la più esplicita disposizione creativa e critica sull’avventura delle Avanguardie storiche – Surrealismo in particolare –, sulle Neoavanguardie, sulla riscoperta di una ricezione quasi palingenetica della natura umana, uscita dal sogno surreale e giunta alla tormentata pacificazione dell’amore, per l’appunto.

Una partecipazione personalissima alle vicende del contesto soprattutto europeo che trova i suoi specifici strumenti creativi nella tua originale interpretazione della concettualità duchampiana e insieme della fisicità onirica della grande poesia francese da (solo per fare affrettatamente qualche esempio) Mallarmé, a Apollinaire, a Breton, a Eluard, a Aragon… e così via.

La raccolta prima Avant que le coq ne chante (1941-1951) è preceduta da un esergo definitivamente significativo nel detto di St Just «Le bonheur est une ideée neuve en Europe» e, tu aggiungi… dans le monde!  E subito con estremo dolce sognante abbandono ti esprimi poeticamente:

la nuit est la porte du merveilleux / l’opium du peuple / du poète // je me souviens / j’étais jeune / j’aimais écouter / les récits qui contaient / les troubadours // dans leurs chants / remuaient / de personnages merveilleux / pour qui le merveilleux / était la réalité quotidienne / celle de toutes les nuits…

Tra sonno e veglia, tra sogno e passione razionale (nel senso ancora una volta duchampiano) notevoli e fondative sono le esperienze di Nozioni di geometria descrittiva, alle quali premetti una astrazione concettuale di Lautrémont: «La poésie est la géométrie par excellence». Già avevi anticipato questa visione parascientifica, cosmologica e biologica, nel capitolo Lineamenti di astronomia applicata di cui fa parte il poemetto Cosmogonia dell’amore (titoli esemplari di una visione altra, oltre i tempi e gli spazi di una superficiale ingannevole quotidianità):

………

Nella mia geometria descrittiva / e non-euclidea / chiamo curva razionale / la linea variabile / del seno / che si riflette nello spazio curvo / della mano trasparente / con simmetria speculare / per obbedire alle leggi di un corpo / radicato in un universo / la cui quinta dimensione / è la dimensione di sintesi

Le leggi paradossali (ma anche recentemente ipotizzate dalle più ardite nuove scienze) delle n dimensioni, invisibili ad occhio nudo, ma percepibili sensitivamente dall’occhio della mente nella spazialità immisurabile della mappe cerebrali e delle loro più profonde seppur inconscie memorie, dominano (e ne ho scritto anche altrove, in un mio vecchio saggio “La Ragione poetica.Scrittura e nuove scienze”), quella in-spiegabilità, in-leggibilità, secondo un detto di Giuliano Gramigna,  della poesia che non va capita, bensì sentita. Metabolizzata. Perciò formalmente, nella poesia citata e in altre dello stesso periodo (anni ’50-’60), ti muovi per immagini in-signficanti (in cui l’in- sta per negazione della logica dei significati e insieme per penetrazione), scandendo l’esplicitazione non solamente soggettiva (nella mia geometria…), ma pur anche universale, obbediente alle leggi del corpo, e alla loro sintesi sensuale.

Con il poemetto Letteralmente dai ragione, o irragione, della tua scelta vitale:

… se mi sono dato / alla poesia / all’anarchia / all’astrologia / alla numeralogia / all’alchimia / (sono cinque le discipline / per infrangere la disciplina) / ora lo so: / era  solo per scoprire / la quinta essenza / (essenza purissima / ottenuta mediante / cinque operazioni / : / sto parlando dell’amore

Secondo un mio vizio testuale (“Testuale” è appunto il luogo della ricerca che trent’anni fa ho avviato con G.Finzi e con G.Gramigna), posso rifarmi a certe leggi convenzionali del discorso, oltre alle leggi più naturali del corpo, per notare che l’enumerazione anche ellittica, e l’enjambement sono gli strumenti più usati dalla tua scrittura poetica. Leggo Méta-morphoses

le ciel a forme de l’habitude / la terre a la forme d’une culbute / la mer a la forme de l’intelligence / la lune a la forme de la mémoire / le soleil a la forme de l’homme / les nuages ont la forme de la science / la pluie a la forme de l’instinct…
(…)
mon amour a la forme du ciel, de la terre, de la mer, de la lune, du soleil, des nuages (…)
mon amour a la forme de ton nom

Esemplare. Come lo è altrettanto Oratio de hominis dignitate, citata da Anna Sikos, che ricorda l’elencazione di luoghi e città in cui «si sono svolti eccidi, antiebraici e più generalmenta antiumani», seguita da una virgola e non da un punto, per avvertirci che «la lista è aperta»… Ma infine la spazialità dinamica e progressiva delle elencazioni (e per l’Oratio delle ossessive accumulazioni geografiche) è, come già mi è capitato di osservare altrove, un luogo di luoghi delle interiori, profonde, mappe cerebrali: là dove, nel limbo o addirittura nel rettiliano, si sommuovono fra inconscio e rivelazione gli elementi di una ossessione che insegna alla coscienza la dismisura della tragedia vitale, eppur ancora della pacificazione cognitiva della verità. È la prerogativa della poesia, della sua originarietà biologica e persino  della sua ambiguità, e vien certamente prima delle scienze e delle filosofie ‘tradizionali’.

Sempre di Letteralmente è la memoria diaristica, fra versificazione e discorso prosastico, di La notte di dicembre nella quale ripercorri la tragicità (…le lacrime si mescolano al sangue…) della tua prigionia in Hadra, accusato, nel 1966, d’essere, per la tua anarchia libertaria, elemento pericoloso. Potremmo dire di un momento cronachistico ed icastico, apparentemente lontano dalla poesia com’è abitualmente intesa. Invece la ritmicità delle descrizioni si fa sinfonica, e nei pianissimi si sussurrano le amorevoli suggestioni del ricordo e della speranza:

la mano continua a scendere / il gesto si precisa / le tue labbra / stringono le mie
(…)
Oggi è il giorno / del paradiso perduto / siamo gli stessi / ma diversi / più savi / più folli // l’isola è lontana / siamo soli / con questo nostro sogno / più lungo della notte

In Ebreo errante (1982) si ritrovano sempre, coerentemente, dopo tanto tempo i motivi mentali, sensitivi e sensuali ed erotici, (ir)ragionevoli, della tua poetica:

ebreo errante / ho vagato tutta la vita / lungo il labirinto della mente / rincorrendo il senso del Tutto / beffato dalle anguste apparenze / schiavo delle strettoie della ragione / prigioniero della gravità
ma quando mi ritrovo / nell’aranceto profumato / del tuo amore / il labirinto si apre / come fiore immenso / le stelle si inginocchiano sui sentieri / il mio corpo / dimentico della morale newtoniana / diventa rondone e nidifica / tra i tuoi capezzoli leggeri…

Richiami in nota un verso dal Convito di Platone: il desiderio è la ricerca del tutto.
Ma leggendo s’ascoltano anche la musicalità del Cantico dei cantici, e la melodia sensualissima de Le Mille e una Notte. La tua libera natura ebraica e certa tua passionale vicinanza orientaleggiante.

Mi rammento anche di Paul Eluard: «Elle est debout sur mes paupières / Et ses cheveux son dans le miens, / Elle a la forme de mes mains, / Elle a la couleur de mes yeux…». Tuttavia in Eluard è sentimentale e fine a se stesso, mentre in te, una simile preghiera amorosa s’incista per immagini ed analogie in una più ritmica, ansiosa (i versi sono brevissimi), universale visione della vita:

i tuoi occhi / profondi /  custodiscono / una luce / mai uguale / a se stessa // solare: generosa / lunare: amorevole / siderale: lontana / crepuscolare: triste / tempestosa: sconcertante… / … lascia che nei tuoi occhi /  brilli sempre / la luce estatica / del sole / della luna / degli astri // risparmiami / lo sfolgorio inquieto / del lampo che trafigge / così come non vorrei mai causare / la luce incerta del vespro

Da notare le pause, e una dialefe, evidenziate dai due punti entro la sequenza centrale di settenari e ottonari. Si tratta di affermazioni aggettivali che caratterizzano lapidariamente, esaltandole per analogie variabili, le naturalistiche qualità intrinseche dell’amata: lunare, siderale, crepuscolare, tempestosa…

C’è l’ansia del tempo che trascorre, che trascolora fino al momento innominabile in cui, forse, si dovrà tacere per non «parler sans avoir rien à dire», per parafrasare ancora Eluard in L’amoureuse citata.  In Interludio del 1984 è sofferto, il tempo trascorso, l’abbandono:

come fu breve  /  il nostro tempo / come accettare / che sia finito // il tuo percorso / non è più il mio / la tua mano fredda / non custodisce più / il tepore della mia //…/
… // nulla mi è rimasto / se non vagare smarrito / nella casa del sogno / interrotto

Tuttavia l’amore si perpetua in una metamorfosi biologico-vegetale:

abiti nel mio essere / come il nocciolo del frutto // fiore tenace il cui seme / è cresciuto nell’aria tersa / del tuo sguardo di bambina // dove scorgo l’antico / alternarsi dei patimenti / con le poche fragili gioie / della vita avara

Perché l’amore non lenisce sempre i patimenti, non arresta il tempo, sebbene pur sempre si alternino sconforti e psicologici riscatti. I versi brevi, incalzanti di Le dita… (2004) ritmano il susseguirsi delle stanchezze e delle sognanti rinascite:

le dita / di rose bianche // di stelle filanti / in notte chiara // di brezza / d’arcobaleno // tenere come crepuscolo // sfiorano la fronta / vecchia e stanca / scompaiono angosce

A partire dalla sezione del 2002 Ouveture rivisitata il cui incipit sottolinea la musicalità rarefatta del rapporto amoroso, quando leggo nei tuoi occhi / il Notturno di Chopin… Il suo seno ha la cadenza / d’un’aria di Mozart…,e via via fino all’alternarsi di poesie edite e dichiaratamente inedite  - prove queste ultime della continuità della passione (l’amore passione) anche talvolta priva di un concreto nominabile soggetto, oltre ogni melanconia e stanchezza -  si fa strada sempre più evidente un raffinato petrarchismo rivisitato (così come l’Ouverture), che invoca la mia donna… dal profumo / di libertà e di gelsomino… La bellezza come verità…
amore mio guidami io conosco la bellezza… i suoi occhi inventano stelle… cammino solo nel bosco incantato… Giacomo da Lentini recitava: «Meravigliosamente / un amor mi distringe / e sovienmi ad ogni aura».

Ma si rifà viva ancora la memoria del dolore, così come nel Ricordo di Giuseppe Ungaretti, pur tuttavia riscattato nella sua natura sacrificale e rinnovatrice: solamente il dolore conosce veramente la gioia… Perché, lo pensa Leopardi,«L’amore è la vita e il principio vivificante della natura».

Del 2005 è Amore folle, seguito più avanti da L’amore è l’erotismo (2006), in cui l’erotismo ormai dominante viene innalzato al valore totalizzante della vita, oltre ogni filosofia, secondo il segno, ancora una volta, di Marcel Duchamp, qui esplicitamente citato, guida ad una possente e penetrante esaltazione sensuale e sessuale dell’intelletto. Gli ultimi versi dell’ultima poesia dell’intera raccolta testimoniano di questa carnale e insieme cerebrale, sensualmente fantasiosa, poetica presenza:

il poeta s’inventa un mondo / che coincide con l’amata / un mondo dove ritrovarsi / e dove
darsi è vita.

Vorrei aggiungere, e lo dico ovviamente per chi leggerà questa mia breve nota epistolare, che la raccolta Tutte le poesie, quasi è arricchita da una serie di disegni a te dedicati da alcuni dei più prestigiosi artisti del secondo ‘900. Serie che ancora una volta testimonia delle tue amicizie che fanno la storia, non solo tua, delle vicende artistiche e poetiche del secolo scorso: i Surrealisti innazitutto, Duchamp, Man Ray, Masson, Schad, ma ancora Francese, Cavaliere, Parmigiani, Paladino, Abate, Del Pezzo.

Scritta a Arturo Schwarz in relazione al suo volume “Tutte le poesie, quasi” (Ed.Moretti & Vitali, Bergamo 2007).

 

 

 

A Giovanni Infelise

Lesa sul Lago Maggiore, 7 agosto 2012

Carissimo Infelise,
ho tra le mani, meglio sotto gli occhi, meglio ancora sotto gli occhi della mente L’ultima notte del pettirosso (dialogico pièce de théâtre, dalla corrispondenza con un amico morto), e Dépassé (raccolta di poesie, o piuttosto ‘poemetto’). Un libro, a volte, quando l’edizione sia egregiamente curata – abitudine squisita degli amici di “Book Editore” – è un piccolo oggetto artistico, ancor prima di un contenitore di testi. Una cornice che dei testi rivela anticipatamente il senso. Non è professionale, da parte di un lettore che voglia pericolosamente atteggiarsi ad interprete, approfittare di questo anticipo! Ma in questo caso non è impossibile farsi suggestionare dal chiaro (od oscuro?) senso di alcune illustrazioni di copertina e dai minuscoli accenni in nota: le incisioni di Max Klinger da Della morte, il drammatico Angelo ribelle con cuore rosso di Osvaldo Licini…, Schopenhauer… Come dire che potrei ben presto scoprire con buon senso comune ciò che mi aspetta… Ma in realtà per ora non so, non voglio sapere alcunché, in quanto pretendo comunque di godere del suono della parola, dell’eco ascoso della sua forma. Anche perché, come afferma Paul M.Churchland, un filosofo di San Diego, “la psicologia del senso comune potrebbe essere – realmente! –  falsa”.  Ed è tanto più falsa, quanto è realmente vera la dismisura (formale, misterica, oracolare) della poesia.

C’è un’alchimia del disordine  - titolo di un capitolo di Dépassé, di cui lei ci offre proprio in questo numero di “Testuale” una approfondita e originale autoanalisi creativa. Ad essa mi rifaccio in parte per fornire qui la mia suggestione di lettura. La vita, nella parola, che la fa veramente (non falsamente) vivere, è vissuta, o invivibile, nella sua nativa, perpetua, insuperabile contraddizione, fra la nascita, il segno ignoto del sogno, e la morte:

L’insidia del tratto arido e finito, / filiforme reliquiario di avanzi, / curvo s’adorna e ripete / la nomenclatura del tempo / senza il ristoro di mète remote.  //  Ma dal tagliente fuoco / e dal burbero sguardo / scivolando sotto le ombre / di lingue sacre e scintillanti, / sospirando sopra amorosi flagelli / di occhi e labbra, / posa un’antica agonia / che piegherebbe / del più longinquo angolo / il vertice.  //  Ora siediti e parla, / siedi vicino e parla / del passaggio, della perplessità / cui fu preso appena l’amore, / quel laconico addio / che in un dono s’accese / e un sorriso stese al sole, / sulle mani di chi sterra l’inferno, / la sregolatezza, / che confessa ogni maledizione / e conforta ogni cosa / avvolgendo parola e sogno, / le avarizie del cuore, / la materia del disordine. //  […]  // Di canti la trama si tinge / e brucia ogni pietrosa coscienza / che dalla sua finestra / apre alla notte in rovina, / alla solitudine del silenzio. […]…

Non mancano naturalmente le figure retoriche tipiche del discorso poetico (velate allitterazioni, analogie o anagogie metalogiche, simbologie astratte significanti il concreto destino umano, atonalità arcaiche come quel longinquo per lontano…), ma passano in secondo piano rispetto al dichiarato processo alchemico, quando alchimia per natura, origine, ‘tecnica’ significhi mescolamento, mescolamento fra gli elementi del disordine concettuale, linguistico, bio(il)logico, individuale e universale. Il disordine che attraversa, confonde, sebbene anche arricchisca d’epifanie inattese e in-comprensibili, quel tratto del nulla che, appunto, già s’è detto, va dal principio arbitrario alla consunzione del non-essere in sé.

Tuttavia quella spazialità arida e finita s’adorna di curvature temporali, perciò non finite (perpetuate doppie eliche?), tanto che le ripete, e, noi, si guarda seppur sfiduciati, senza ristoro, a mete remote. C’è pure quindi un tempo, che stravolge le mete invertendole dal futuro al passato – come in un buco nero, se mai possa esistere dentro o fuori da ogni concettualità ipotetica. Ma è questa per l’appunto la testimonianza alchemica, ammantata di mistero iniziatico: mystikós.  Tanto che se ne fa una reliquia (ciò che resta di qualcosa), seppure filiforme, quasi invisibile, impalpabile. Contenitore (sacrale o sacrilego?) solamente d’avanzi: ma gli avanzi richiamano a un confuso, improprio uso d’oggetti, di conoscenze, di sentimenti. Di cose in qualsiasi modo, ancorché disordinato,  viste, toccate e vissute…

Ora siediti e parla dello sregolato disordine, che va confessato senza illusione di assoluzione: si tratta infatti di un peccato di cui non siamo colpevoli. Vittime piuttosto di ogni maledizione, ma purtuttavia confortati da quella parola che sorge dal coinvolgente sogno. Dall’amore di un laconico addio. Quell’amore vivibile solamente nell’addio.Dalla poesia? Che rivela, all’accensione di un dono comunque immeritato, la verità, indimostrabile (solamente avvolgente…) delle nostre non volute, bensì innate, avarizie del cuore. Questa è la materia del disordine, e insieme la forma del canto che, ancora, proprio, in verità (quantunque indimostrabile) brucia ogni energia della coscienza – dalla poesia riscoperta – e nella solitudine della notte ci racconta silente della nostra rovina, del nostro nulla nel nulla.. Paurosi nella nostra reticente indolenza – come vien detto in qualche verso precedente, e dell’’urlo d’angoscia di un verso immediatamente precedente.

È la luce della poesia che brucia… tra minacce oscure (in altra strofe di incerta chiusura) e illumina quel mare che

conosce l’inizio e la fine/ del fiume che ti riporta e ti estingue / nel labirinto della speranza.

Ancora l’andare, il salire (anàbasis), il tornare, l’estinzione. Quale speranza allora? Forse illusione, pur sempre poetica e creativa, di quella immaginazione, lo si dice in altro capitolo  (Genetliaco delle sette stelle):

         L’immaginazione / è nel più oscuro soffio / che tutto rinnova, / là dinanzi alla settima luce / già tenebra / al tiepido grembo interdetto / di terra e di mare

Ma, si sente prima di vederla, c’è sempre una tenebra che vuol cancellare quella  luce, c’è sempre, pur sempre, una interdizione.

Quel senso comune di cui si parlava potrebbe chiederci (come talvolta, non poche volte, ci chiede): che validità può mai avere affidarsi allo stravolgimento linguistico, di pensiero e di senso della poesia a fronte della ovvietà, comprensibilissima in poche parole, della vita come contraddizione? Dalla nascita, nel dolore fino alla morte? In verità la poesia ha sempre detto di questa contraddizione, ma non si è mai accontetata di accettarla, se non cogliendone le irragionevoli ragioni nelle minime, oscure, pieghe della parola e del segno. Dell’immaginazione, appunto. “Alla ricerca dell’anima”  come unico “senso di sé” e non d’altro. Come direbbe, e l’ha detto, Jorge Luis Borges.

L’ultima notte del pettirosso, lo ripetiamo per i lettori, è una possibile azione poetico-teatrale nata dagli scambi di corrispondenza tra lei e un caro amico, Arnaldo Picchi. Si può svolgere a tarda sera su di un’isola deserta battuta dal vento, alla quale sono approdati dei Naufraghi, un Poeta (e il suo doppio, lo Straniero), sotto l’occhio conturbante della Parca (che può decidere comunque e ovunque d’ogni destino), e, più confortevole, dell’Oracolo. Costellano i testi, i dialoghi, le considerazioni, memorie musicali appropriate: da Mahler, da Rachmaninoff, da Verdi… I Personaggi citano dai grandi testi e dalle opere della civiltà greca ed europea: da Omero… a Pessoa… a Kafka… a De Chirico…

L’Oracolo, che concluderà la rappresentazione, uccidendo il Poeta e, seppur pentito, subirà la vendetta dello Straniero (il Doppio del Poeta), avrà, fra l’altro, avuto modo di dire:

         Che significa questo? Devo intendere: che ci sono molte altre creature, molte altre bestiole che nella campagna e nel frutteto ti guardano con mitezza. E le erbe, poi, che ondeggiano – sono una popolazione flessuosa ed elegante. Noi sappiamo che non cìè giustizia. E dunque tu non falciarle.

Per noi che significa questo? Significa ciò che lei recita nell’ultima poesia di Dépassé:

         … lascito di una fine / che ha nello stillicidio / dell’acqua / l’eco di uno sguardo / recluso in una rambèrga / di incognite reali // che naviga /ormai naviga // senza rotta né brezza // né sillabe da intagliare // o dipingere sulla bocca // al ternine del viaggio.

Scritta a Giovanni Infelise leggendo i suoi testi: “L’ultima notte del pettirosso” (Book Editore, Ro Ferrara 2010) e “Dépassé” (Book Editore, Ro Ferrara 2011), e riferendomi alla sua autoanalisi di cui all’intervento in questo n.50 di “Testuale”

 

A Giuliana Lucchini

Lesa sul Lago Maggiore, 24 giugno 2012

Cara Giuliana,
sto leggendo (senza rispetto per le date di composizione e pubblicazione, che mi pare talvolta si incrocino) Donde hay musica e Non morire mai. Già ti ho detto della mia sorpresa per la raffinatezza editoriale e grafica – specialmente negli spartiti dei testi – dei due volumi. Vorrei aggiungere fra l’altro che, fin dalla prima lettura, colgo l’individualità delle due proposizioni protagoniste, per il primo la musica in senso stretto, per il secondo la musicalità.

Fra i diversi musicisti (confesso con piacere, molti pure a me congeniali) ai quali ti richiami, scopro il raro, e quasi sconosciuto, autore spezzino: Giacinto Scelsi. Il quale rivela, lo citi in epigrafe, che «Il Suono è il primo movimento dell’Immobile». Era «incantato dalla sonorità del pianoforte e ne esplorò»  ossessivamente, specialmente nei Preludi, e nei Quattro pezzi ciascuno su una nota sola il «suono unico, sferico, cosmico» (A.C.Pellegrini). Può sembrare soggettivamente arbitrario il piacere di cercare in concreto alcuni parallelismi fra certe tue composizioni e qualcuno dei Preludi, tuttavia mi sento autorizzato qui e là ad una simile emotiva lettura dalla aperta ambiguità (ossimoro?), e dall’insistito asintattismo di tante tue strofe. Se cedo all’invito, Ascolta, che è il titolo di una tua poesia

soffiata sottotono / la bellissima arrotolata morbida / rauca vibrando nel porgersi / voce // che sollevandosi incide // dal suo dentro il tuo dentro / nutre, bocca dell’aldilà // Voce, la voce / … / voce che chiama, invoca, soprannaturale…

mi riporta, per esempio, all’ascolto del Preludio I,7, Molto cantato di cui la pianista esecutrice (Alessandra Ammara) della mia incisione dice «Forte contrasto fra una linea declamata, molto espressiva e morbidissimi [tu dici morbida…] languidi accordi…».  La tua poesia declama fin dal titolo, per l’appunto, e la voce che chiama, invocaincide fra asprezza (rauca) e vibrazione (languida) dal suo dentro il tuo dentro / nutre (con ribadita  allitterazione) bocca dell’aldilà  -  soprannaturale.  È così che il Suono della Voce (il ‘Fiat’) è il primo movimento dell’Immobile.

Così, toccata dalla Sonata op.40 per piano e contabbasso di Shostakovich scrivi

Altero / fra le sue braccia / immenso gli spinge / il fiato, gli sforza le dita - // e salta e sbuffa, respiro alle corde, / e ride e morde, / corrente elettrica -  // lo piega ad arco / e suda e si spoglia, brunito / corre, sospira e grida // scivola si rialza – alla rocca si fuga / delle sue mani, creaturale riflette / la mente in danza intorno al suo dio // (o mano che formi la voce / che sali e respiri la luce, ti posi, porti / ostia, eucarestia)  // così piange e canta / inno dei cieli / il corpo d’amore

Viaggi, paradossalmente a ritroso e per temporali, epocali genericità, dalla ritmicità esasperata di Shostakovich alla ossessività – tratteggiata d’enjambiement, ansiosa, silenzi e voci, spazi interrotti ed echi spaziali – di Emily Dickinson.  Ma ancora, riprendendo la mia lettura ‘secondo Scelsi’ rammento il Preludio II 14, piuttosto mosso che, con la sua ieraticità riprende il Quatuor pour la fin du temps di Messiaen, altro musicista al quale mi riporti, pur senza espressamente citarlo, con così piange e canta / inno dei cieli / il corpo d’amore. Ed ancora con la poesia:

Bello / il giorno che muore [La Fin du Temps] // (non come l’uomo che va in Paradiso / folgorato dall’esplosione) // con l’ombra larga sul mondo / coronata dall’ultimo raggio // a fianco di lucciole e / di grilli giù in giardino // suona di viola / d’amore // l’oggi che fu di ieri il mandorlo in fiore, / di fiati ramo – rosa dei legni, la rosa delle spine - // bello e intoccabile, giorno / mai più vivibile, di dita fluide // come la mano /  che ci sfiorò.

Ma una lettura si fatta potrebbe far pensare, erroneamente, ad una sorta di aspirazione mistica, complice l’insignificanza della poesia. Di questa tua poesia in particolare, sovente priva di soggetti e rivolta ad interlocutori fantasmatici. Va sottolineata invece l’originarietà (dirai del nervoso ticchettio dell’origine) di ogni possibile estasi nella concretezza cosale del presente. A partire dalla oggettiva storicità pur sempre inalterata, eternale, degli amati spartiti, e degli strumenti descritti con acribia. e così via via… dall’occasione di un concerto (datato) effettivamente ascoltato, di un paesaggio mozzafiato, di una pietraia, di un gufo solista nella notte, di una canzone esotica o erotica, di un bimbo che impara a suonare, le mani e le dita, di un passo di danza (un tango – il rock), un’alba, una fonte, un CD…  un Canto della terra (Malher), la favoleggiata favela…,  un mio sorso / dentro il tuo bicchiere… Un amore, il balletto di tutti gli amori…

Ciò comporta una visione totalizzante, quindi cosmologica della realtà.Potremmo, allora sì, proporre una mistica del materialismo se la definizione non comportasse degli equivoci. Vorremmo dire del mistero (mistica appunto) nella metamorfosi delle cose attraverso l’esperienza musicale, quando si dovesse considerare la musica, prima ancora della parola, il soffio vitale del dio: vale ripetere il Suono primo movimento dell’Immobile. O, come nella tua traduzione di Emily Dickinson, tocca lieve la chitarra della natura.

Tuttavia, per muoverci sempre entro le fascinose suggestioni musicali, mi rammento della affermazione del musicologo Mario Bortolotto (Fase seconda, Studi sulla Nuova Musica, Torino 1969) in merito alla concezione spaziale di Debussy in cui si fa strada un primo tentativo di «immobilizzazione del tempo musicale» tradizionalmente misurato: una pretesa «faustiana». Come ho supposto per la tua raccolta Non morire mai, dalla musica strumentale alla musicalità inscritta nella forma, come s’è detto, cosmologica. Nella forma in-forme e in-leggibile (per dirla con Giuliano Gramigna) del segno – prima della parola stessa – poetico. Trovandoci, come reciti,

divisi fra desiderio di essere e di / non essere / siamo rondini in fuga / … // chiusa nel chiuso della tana / la felicità / delle aperte distese dei prati, / un gioiello conservato in uno scrigno…

La fuga temporanea delle rondini, per altro destinate pur esse al nostos,  di contro al gioiello perpetuamente conservato in uno scrigno. «L’eternità questo invisibile che noi vediamo»  secondo Muriel Barbéry che citi. Ci sono, li riveli, i fatti realmente accaduti delle tue storie in Interni (quello che resta dentro, dell’esterno): i naufragi e le urla entro la gola del mare. E approdando alla Terra riconosci che

            Siamo lo spazio assegnato, / siamo la parola detta // Qui non ci formiamo le storie / e ci destiniamo le parti / Di quadro in quadro. Drammi. / Commedie. Tragedie. Farse. / Tutti siamo gli attori / se sulla scena del mondo / mentre qualcuno ci guarda / … / gli eretti del nulla / passiamo

Siamo: pur entro i fatti realmente accaduti, entro i movimenti esasperanti, restiamo immobili, nel nulla, entro il nostro spazio assegnato. In Quête dipingi l’immobilità estiva della spiaggia e l’immobilità del mare mortale che uccide e Tutto ora è blu. Le onde / al largo distese…  E poi affermi che amiamo il bianco… fra le bianche lenzuola d’infanzia… Lì si ritrovano insieme riconciliati / l’andare e il restare // in reciproco abbandono. Qui tutto il tuo discorso immaginifico lascia perciò l’affascinante, stimolante rumore dell’onda sonora, la musica, il suo movimento, la danza, per abbandonarci all’ Immortalità

Immortalità – nel non visto / stai // materia d’ombra, una tomba / a celebrare la tua croce splendida di vita, / un nome, numeri, marmo di questa luce / tenebra // volto racchiuso / cui china giaculatoria di pena in umiltà / la devozione // in una cornice tonda // sconosciuto // volto dell’Altissimo.

Sebbene non si trattenga mai la contraddittoria dialettica fra il conoscere e il non vedere, fra la morte e la vita: la tua croce splendida di vita. Perciò se la fascinazione dinamica della musica ti muoveva in tempi formali anche frenetici (come la vita splendida) esaltando dinamiche epifanie espressionistiche  scandite dal canto, questa tua intima vocazione, ora, verso l’immobilità eternale ti spinge a una visione di coscienza (vogliamo dire filosofica?) pacificamente scandita sulla distensione di una fine rivelatrice. La dialettica di cui diciamo, meglio ci prende passando da una raccolta (o poemetto) all’altra… Come la fuga della rondine e il suo eterno ritorno (luogo comune ormai, quest’ultimo, che solo la poesia con la sua insensatezza asintattica e analogica sa riscattare).

A proposito di questa dialettica Charles Segal (Orfeo.Il mito del poeta, Torino 1989-1995), rifacendosi all’Orfeo di Rilke, nota che «la poesia, espressione della vita immateriale dello spirito, trascende il tempo e il mutamento; e la poesia necessariamente si brucia allorché accoglie il proprio fisico impulso verso la bellezza transeunte, che pure ne costituisce l’origine e l’ispirazione e, di più, accetta la propria stessa materialità in mondo destinato prima a fiorire e poi a deperire».

Formalmente questa condizione si risolve in te nella scioltezza del discorso (poesia di intonazione narrativa ti vien di sottolineare, perciò testimone di episodi, di incontri), nei versi e nelle stanze dagli interiori distesi silenzi, dall’accettazione dei destini trattenuti in spazi assegnati, in parole dette per sempre: sebbene valga di contro il tuo timore che il mondo, pur anche immobile (oltre ogni fioritura), sia in effetti destinato a perire. Ecco che la parola-voce cerca la sua primigenia musicalità (andante con moto oltre ogni formale spartito). Su molte composizioni, quasi tutte, potremmo, dovremmo soffermarci ma alcune appaiono particolarmente esemplari. Come È già Infinito:

A gomitolo il Tempo / si svolge per segmenti, segnala il tratto del filo, / quanto ci basta di canapa grezza per filare / Una volta concluso il nesso di paragone / dentro il tessuto stesso sostenuto / s’abbandona per sempre corpo a corpo / il luogo d’ago del ritornare: // la mano allungata, anello all’indice, il braccio disteso / indica all’indietro il percorso / oltre la siepe oltre il più lontano / orizzonte del mare // la terra d’erba / dove non sarà mai più colto il fiore

Concludi in calce: siamo il numero diviso per se stesso noi siamo l’uno.

C’è la poesia (lasciamo che la cerchi chi vorrà leggere questa lettera e il libro) che dà il titolo alla raccolta, Non morire mai: principia col riconoscere che muore anche la palma che ti dipinse il cielo dell’ardore… Ma tu! / non morire mai… Un giro d’aria ti faccia fremere / ali. Non morire… Quest’ansia di eternità, anche oltre la iterata stanchezza della vita stessa, dice comunque: al passo! Ricominciare… E nomini con accettazione - quasi innocente malgrado la coscienza dell’essere - Ludwig Wittgenstein: «Il mondo è quello che avviene».

Scritta a Giuliana Lucchini in occasione dell’uscita dei suoi volumi di poesia “Non morire mai “ (Ed.LC Poesia, Roma 2012) e “Donde Hay Music”a (Ed.L.C.Poesia, Roma 2012)

 

 

 

A Flavio Ermini

Lesa sul Lago Maggiore, 1 luglio 2012

Caro Flavio,
perdonami se intervengo con qualche ritardo sul tuo saggio-poema (o poema-saggio)Il secondo bene.Sul compito terreno dei mortali: ma si tratta di una ricerca assai complessa, articolata e aperta che richiede più di una lettura. E non basta certo questa mia breve lettera, dettata fra l’altro da affetto, prima che da una necessaria analisi-critico-testuale.

Al fine di poter mettere un primo ordine nelle mie sensazioni cerco - ahimé! - troppo riduttivamente di coordinare alcuni momenti che mi sembrano comunque essenziali, imprescidibili per farmi un’idea del tuo pensiero; e per cogliere con sufficienza la misura della tua coerenza stilistica – ma quest’ultima impresa di lettore mi è facile perché ti conosco bene, e bene conosco il valore della tua scrittura. In ogni modo credo di poter sottolineare tre momenti fondativi:

In proposito devo subito rammentarmi, e citare, seppur per lontana ma non peregrina analogia, un testo classico famoso in cui il sonno-sogno trova una delle più fascinose poetiche utopie del neoplatonismo: il testo quattro-cinquecentesco Hipnerotomachia Poliphili attribuito a Francesco Colonna. In esso fra l’altro si racconta – secondo la sintesi critica di Mino Gabriele (Einaudi, 1998) che la «prima difficoltà per l’anima nella sua onirica battaglia d’amore è il distacco dal corpo, affinché riesca a vedere, a distinguere le immagini che le si pongono davanti, oltre l’ostacolo dei richiami distruttivi del materialistico sensibile: è la selva, già dantesca, che abbuia la psiche con gli adunchi rovi dell’oscuro bosco».

La tua Avvertenza (incipit del saggio) e una successiva sofoclea epigrafe esprimono chiaramente il tuo pessimismo (va indicato in corsivo a causa della sua problematicità sovente contraddittoria) rispetto all’esistenza del mortali: dal socratico «tornare al più presto da dove si è venuti», al leopardiano «non c’è altro bene che il nostro essere; non va altro di buono che quel che non è; le cose non sono cose». Aggiungerei da parte mia, da un diverso punto di vista, il detto di Wittgenstein: «il mondo altro non è che quello che avviene». Ma per quanto attiene il memento mori con qualche incosciente banalità (per alleggerire!) mi permetterei una vecchia battuta che mi perdonerai: non vorrei parlare della morte, in quanto io non sono là dov’è la morte, e la morte non è mai dove io sono!

Ma torniamo alle cose serie… Tu sviluppi la tua pessimistica (sempre in corsivo!) concezione del vivere (e del morire) con fascinosi toni indubbiamente e appropriatamente profetici, e, infine, con incalzanti suggestive immagini tematico-dimostrative sulla essenza nativa e mortale del Nulla.  E qui, sempre da parte mia, dovrei affrontare l’argomento sotto una diversa visione della (ir)realtà, umana e cosmologica: ma non è il momento – perciò mi permetto semplicemente di rimandarti, se mai avrai voglia di leggerlo o rileggerlo, al mio saggio nel n.47-48 di Testuale che fa del Nulla e delle due facce del Nulla (il Nulla della Storia, e il Nulla pre-creativo dal quale si forma il segno, la parola poetica in particolare) il tema di fondo di certe mie considerazioni, per altro a suo tempo varie volte espresse in concrete occasioni di letture su diversi testi poetici di diversi autori, antichi e a noi contemporanei.

Il testo complessivo del Secondo bene sebbene si sviluppi per affermazioni probatiche partcolareggiate, si stilizza in un monolite difficilmente scalabile. La constatazione che si nasca per morire, attraversando l’inutile sofferenza della sottrazione, da un certo punto di vista non ammette ragioni di contestazione. Assenza e Vuoto sono l’unico non-spazio nel quale siamo condannati a vivere, o non vivere: portiamo il peso terribile dell’esistenza ed anche le quotidiane resistenze individuali (quando si manifestino) si confondono nella collettiva, generale vacuità di misure convenzionali, inventate artificiosamente dalla impossibile fuga dal Nulla, o dalla inspiegabile apparente metamorfosi della materia. Così affiora – dici – nel non-tempo al quale siamo condannati, o spinti dalle nostre illusioni, un’unica forma chiusa senza uscite, se non affacciate sull’abisso.  Così nel viaggio senza meta o spiaggia in cui approdare più ci muoviamo, più ci agitiamo, più soffriamo. Storia, scienza, politica non sanno dar conto di questa verità. In quanto sono incapaci, inspiegabilmente e paradossalmente,  di una ipotesi di salvazione in quella visione globale della conoscenza, filosofica e poetica, che sole possono dar conto della mancanza nostra e delle cose: e citi in proposito giustamente Platone e Novalis.

Allora, tuttavia, si dà, se vogliamo tenerne conto, la via di una pur caduca salvezza. Si tratterebbe di riconoscere la fiduciosa coscienza (innata?) non tanto nel senso di umanità, quanto nel senso del suo dolore: la fiducia sofferente nella terra desolata di Eliot. Là dove il presunto progresso, comunque sia, arrischia pur sempre la totale insufficienza. Perché anche quel percorso è infine (ho ricordato il Colonna) sbarrato dagli infiniti ostacoli della oscurità della selva. Ma il morente non può comunque fermarsi. Il primo uomo solo, l’Edipo, sa riconoscere ed ammettere la propria responsabilità e i propri errori oltre la inesorabilità del destino. Solamente perdendosi nella selva si può cogliere la natura del primo uomo che potrebbe, seppure inconsciamente, ritrovarsi in noi. Perché, malgrado tutto, riconosci il respiro della parola: è necessario rispondere in prima persona all’appello che viene dalla parola per portare a destinazione il seme di conoscenza che essa racchiude. Non il cielo: la parola deve dire la terra… «È necessario, afferma Ungaretti, separare la parola da tutto ciò che era decorativo, retorico, manierato». Perciò la parola della poesia?

È la parola della scena aurorale: parla di qualcosa che, con una domanda, ogni volta comincia e, con l’ultima domanda, prepara il nuovo inizio. Entro le due soglie la physis impone di sterrare e dissestare la vita dell’essere, scoprire l’originaria lingua che è il suo fondo.

C’è quindi una via d’uscita – e tu la riveli esplicitamente – illuminata dall’incendio della coscienza, una via d’uscita dalla selva, che tuttavia si fa riconoscere nelle fiamme, e solamente per le sue ceneri. La parola fuorilegge, rispetto alla parola vana dell’incoscienza. Ma la presa di coscienza ci spinge appunto pur essa nel pericolo. Perché non si può negare il rischio dello scrivere e della sua alchimia. Lo scrivere nel silenzio, una condizione dolorosa che è sempre a-venire. Il rischio, di lanciare il nostro sguardo “prima del linguaggio”… La parola originaria, aurorale, che per prima ha udito il richiamo delle cose senza nome. La parola poetica e il rischio della poesia. Poesia come rischio. Vorrei dire il rischio calcolato dell’imprevedibiltà e dell’interruzione della storia che tu richiami. E ciò che da altro punto di vista ho a mia volta riconosciuto nel mio saggio sopra nominato, al n.47-48 di “Testuale”. Dicevo:  «l’uomo giunto a una certa maturità, quando la disposizione al fare non è più puramente istintuale, perciò originaria. si disperde in questa evenienza per certi aspetti drammatica. Nulla è tutto ciò che abbiamo fatto, nulla è tutto ciò che faremo o potremmo fare». Solo il rischio dell’alchimia concettuale prima, scritturale dopo, trova il suo disequilibrato sbocco: la poesia, per l’appunto, come il momento del dire senza dire. Perché rifacendoci al luogo comune, ormai, wittengesteniano «ciò che non si può dire si deve tacere». E solo in questa impossibile prassi che la poesia e l’arte e la musica esprimono il loro primato anche sulla filosofia, tanto più questa si avvicina alla consequenzialità della logica. Per questo, scuserai il tradimento forse di certe tue intenzioni progettuali e raffinatissime, considero, mi compiaccio nel leggerlo, questo tuo immaginifico excursus un poema, prima che un progetto cognitivo in senso filosofico. Salvo che non si considerino, secondo anche la tua ben nota posizione, il principio, la fine, il viaggio quale cognizione del silenzio. Un silenzio, quello della poesia, estremamente produttivo, produttivo non certamente secondo il senso banale della prassi, della produttività materiale e utilitaristica.

Qualcuno ha detto «mai percepiamo direttamente gli oggetti materiali (o cose), bensì percepiamo solo dati sensoriali… In effetti, tuttavia, com’è ovvio, i nostri sensi sono muti… E i sogni? Illusioni o delusioni? I sogni sono ciò che sono nella loro sognante realtà» (Jl Austin, Senso e sensibilia, Lerici 1968).

Stefano Agosti, nel discorrere del Fauno di Mallarmé (Feltrinelli, 1991) dirà a sua volta «Nell’ Aprés-midi… il linguaggio… si fa esso stesso  produttore di oggetti, di situazioni, di stati…». Muti e segreti (vale a dire mistici), aggiungerei.

Nella silente scrittura (l’abbandono sensibile al sonno-sogno, preludio… vitale alla morte), come giustamente affermi ogni cosa scorre, oscilla, incombe. Nell’affidarsi ad essa, non è possibile pianificare ciò che viene, né riordinare ciò che è stato. Non resta che aggrapparsi con tutta la vigilanza possibile a quel punto in cui si sta e che si chiama esistenza.

Scritta a Flavio Ermini in occasione dell’uscita del suo saggio “Il secondo bene” (Ed.Moretti & Vitali, Bergamo 2012)

 

 

 

A Sandro Boccardi

Lesa sul Lago Maggiore, 13 agosto 2012

Caro Sandro,
perdonami se ho lasciato trascorrere tanto tempo dalla tua lettera e dalla telefonata che ci siamo scambiati, ma ho avuto un periodo difficile, prima per alcuni viaggi di lavoro e poi per diversi disturbi che mi hanno costretto ad esami e cure. Sono anche preoccupato per “Testuale”: siamo in crisi… costi tremendamente aumentati, oltre alla perdita di un paio di utili sponsorizzazioni… con la scusa della crisi (vera o pilotata?)… crisi che colpisce pare anche gli abbonati che vanno diminuendo. Tuttavia vogliamo resistere. Hai ricevuto il n.49? Stiamo componendo il n.50 ma non saremo più in grado di pubblicarlo in cartaceo… dopo ben trent’anni di… onorato servizio! Pubblicheremo, come abbiamo già fatto, esclusivamente, seppure integralmente, in internet al sito  www.testualecritica.it. (Lo conosci? Se puoi consultalo, vi troverai i numeri più recenti e, per i più antichi, i sommari completi. E’ uno spazio web ben frequentato e apprezzato).

Ma veniamo alla cosa più importante: alle tue Partiture d’acqua e di terra. Fra l’altro in una edizione assai raffinata. E la prefazione dell’amico Silvio Aman, anche là dove, opportunamente, sottolinea il tuo costante e prezioso rapporto fra parola e musica (come non ricordare il tuo fondamentale trentennale impegno per la tua creatura milanese “Musica e poesia a San Maurizio”?), mi sembra insieme acuta e affettuosa. Bene hai fatto a riprendere, con le poesie più recenti, parecchie tue composizioni a partire nientemeno dal 1962. Decisione utilissima anche a me! Perché diverse tue scritture che qui scopro mi erano sconosciute!

Complessivamente, tuttavia, sfogliando il libro, soffermandomi sui testi che più mi coinvolgono, percorrendo le… ‘annate’,  posso riportare un’impressione un poco diversa da quella di Aman. Il tuo prefatore insiste – con ragionevolezza per altro, come sa fare lui – su consistenti differenze fra i testi dei tempi diversi, ritenendo che oscillino negli anni fra temi e misure formali differenti: in particolare da un certo lirismo, ad una osservazione metafisica delle cose, ad una implicita religiosità. Porta prove sovente convincenti in proposito, ma io, da parte mia, pur riconoscendo certi passaggi ovviamente riferibili anche agli anni, alle vicende personali e letterarie, credo di  cogliere un continuo andante generale formalmente assai coerente. C’è, vale a dire, l’evidenza di un tuo personalissimo modo di fare poesia… qualsiasi siano i temi, le occasioni, le necessità interiori.

Mi arrischio ad evidenziare una mia personale testimonianza di lettura, aderendo al tuo progetto antologico: alternare – in questo caso sì…zigzagando fra  la creatività presente, o quasi (2010), alla più antica (1962): e ciò per cogliere quella unità complessiva, che tuttavia non diviene mai ripetitività o stagnazione, tutt’altro.

Del 2010 è “Alba di mezzanotte”:

Come un andare in penombra di tigli /  l’alba di mezzanotte a scendere giù // (nel sonno) // obliqua l’ala d’argento del jet sul catino del mondo //  e là, nel viola blu, // una placenta d’acqua e nebbia sotto la carlinga / dove s’imbruna la vita con i suoi girini / per forza, o per necessità sospinti / / là (nel sogno) ai loro intrighi e giochi / e ti domandi se vivere o morire conviene / o risvegliarsi dove il sangue tiepido ti porta, o il desiderio // o un contatto fugacemente lungo o effimero // e tu sei là // (nel sonno e nel sogno) // e adori un dio che non conosci.

Subito va detto che si tratta di un testo straordinario per ambiguità, per ritmo spezzato, pur nella apparente discorsività: apparente poiché si vanno sviluppando continuativamente paratassi e asindeti, accumulazioni e fratture geologiche (come opportunamente nota Aman). Per non dire di una consistenza biologica, congenita, in rotazione sanguigna e cosmica (scendere… obliqua … placenta d’acqua e nebbia… per necessità sospinti… vivere… morire… risvegliarsi… sangue tiepido… desiderio…).

Vado a leggere da “Durezze e ligature” del 1967, i “Messaggi”:

La verde coda del vento che scombina / frammenti dentro gli alberi rovesci / (la pagina inferiore, quasi d’argento, delle foglie) / la polvere, il nido degli strappi / dove s’aduna in cerchio sterpo e carta, / qui nella turbo-colonna dell’aria / ho gridato messaggi. / La pazza vertigine del vento non / mi lascia spiegare, arsa gola / e secca, l’ingombra: l’afona scintilla / della voce scivola e va / in alto / disumana.

Molte sono le analogie formali e tematiche fra le due poesie così distanti nel tempo: la sensazione delle contraddizioni vitali – scombina -, la frantumazione che paradossalmente accumula - polverestrappi - , la rotazione sanguigna - in cerchiola turbo-colonna dell’aria… la vertigine che ammutolisce e spezza la ragione del senso comune… la voce che scivola…-.  E c’è la pagina quasi d’argento, come l’ala d’argento.  Il tema è ancora disgregato, disumano, e questa volta in particolare dall’enjambement e da quel neologismo composto, turbo-colonna che sembra risentire dei modi delle neoavanguardie di quei tempi. E non manca l’ambiguità del sonno e del sogno che riportano all’incubo, così frequente, dell’impossibilità di dire (nel sogno e nella vita),
dell’afona scintilla.

E per stare nel tempo di mezzo della storia della tua scrittura scopro del 1978, “In le tempora”, la poesia “Quale serena rosa luce” (ne cito solamente qualche verso):

Quale serrena rosa luce / grembo di foglie nell’ombrìa di luce / zolla spezzata dal gelo del sereno /
latte frumento acerbo dondolare / di paglia e spighe verderame mare / capelli avvolti fra le dita e il vento…

L’accumulo ora, insistendo sulle paratassi, va per elencazione battente, in cui robusta è la ritmicità musicale (scala / di toni e semitoni…). E non manca il desiderio, che ho citato più sopra.

Certamente nel corpo vasto di questa antologia si ritrovano lirismi e sacralità: li rileverà il lettore. Tuttavia non nuociono mai a uno stile così compatto e insieme, paradossalmente frastagliato. Ma questa non è la vita?  Un caro saluto.

Scritta a Sandro Boccardi in occasione dell’uscita della sua raccolta di poesie “Partiture d’acqua e diterra” (Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2012)

 

 

 

A Caterina Davinio

Lesa sul Lago Maggiore, 13 agosto 2012

Carissima Caterina,
scusami se, malgrado la mia promessa, ho lasciato passare tanto tempo prima di scriverti, come sto facendo, in merito a Il libro dell’oppio, di cui ti ringrazio.  Un dono, per me, assai gradito poiché ben poco conoscevo delle tue poesie, alcune delle quali, vedo, risalgono nientemeno al 1971. Ti ho sempre conosciuta e apprezzata soprattutto come… Davinio Art Electronics… o come Karenina, perciò la sorpresa è ancora più piacevole.

Ma venendo subito a questo testo decisamente straordinario (di per sé, e rispetto in particolare a quanto si va ormai piagnucolando in poesia dopo gli anni Novanta) devo dire che ne sono rimasto profondamente colpito. Riferendomi a una concezione della poesia come coinonia  (vs/ comunicazione) mi capita – nell’ambito delle mie letture critiche – di usare quello che per me può apparire ormai un lemma limitativo, ripetitivo e dal senso banalmente comune: coinvolgimento.  Ebbene, tuttavia anche in questo caso, con la massima veritiera sincerità, debbo dire che il tuo poema, poème (detto per poesia alla francese, o nel senso della nostra lingua, per la sua narrante, compatta e complessiva unità) mi ha decisamente coinvolto, fortemente impressionandomi e… segnandomi. In merito a un drammatico eppur vitalistico tema, quello della droga, che in passato, ho affrontato sul piano logico ed epocale, mai nell’ambito della poesia e dei suoi valori o disvalori totalizzanti.

Certamente mi è stato subito facile (senza, bada, il minimo sospetto di una tua creatività scadente nell’epigonismo) riportarmi a simili personali impressioni (coinvolgimenti!), riferite, piuttosto che esplicitamente alla droga, a certi ben noti temi e stilemi letterari e d’analisi psicologica, quali – troppo facile, ripeto!  -  Mallarmé, Rimbaud, Kerouac… Céline… E riferendomi in particolare (anche qui in sé la droga non c’entra, ma c’entrano gli stati d’animo di una assurdamente vitale follia, di una miseria dai disvalori paradossalmente umani ancorché di fronte inesorabilmente alla in-coscienza della morte) a certi films di Chabrol, e soprattutto a quello (certo lo conosci) che se con l’oppio non ha nulla a che fare concretamente, se non per una gelida rappresentazione dell’annullamento fisico e mentale, si intitola La cérimonie, e in italiano ancor meglio, circostanza rarissima per un film doppiato, Il buio della mente.

Quest’ultima citazione non è casuale in relazione al tuo racconto. Il libro dell’oppio non è privo di rappresentazioni cerimoniali (talvolta misticheggianti), né di ottundimenti mentali (talvolta criminali nella nudità di uno spirito arso, annullato nella purezza del nulla):

Nitido piacere / della caduta. / ho / la visione distinta / senza peso, non mi credi? // Volo. / Piacere / serpeggia / nella macchina onnipotente / del corpo / e non so / più /  (cos’è / il dolore).
            L’isopprimibile / desiderio / di assomigliare / a Dio.
            In quel momento / solo sentii tutto / passarmi attraverso. / Il tuo sorriso: / una perversione / innocente.
            Uomo del mistero, / quale peccato ti ha reso così turpe, / così colpevole, / così puro e nudo? / Percorro le tue vene, / come lunghe autostrade, / la purezza / al di là della giustizia, / del delitto / e del castigo.

Voglio dire, di fronte a questo testo, di un poema, appunto nel senso italiano del termine, perché non so leggere il libro come una raccolta di poesie: bensì come un continuum narrativo paratattico, dalle immagini analogiche, dominate da asindeti, rispondenti ad un flusso inarrestato di accumulazioni. Perdonami se cito un altro autore: Joyce. C’è una composizione a pagina 132 dal titolo Frasi rubate. Forse fra tante poesie non è la migliore – almeno in senso tradizionale, della tua stessa tradizione  – ma denota in sintesi la fondamentale caratteristica complessità di questa tua scrittura: flusso (di coscienza, come s’usa dire) di immaginifiche sensazioni rubate. Rubate all’estasi e all’allegria artificiali, agli amori fuggevoli, alla tragica rappresentazione di una ininterrotta mancanza, alla spasmodica ricerca della illusione di una impossibile felicità. Rubate, tuttavia nel presente di ogni momento irrisolto e irrisolvibile, alla speranza – quasi alla certezza, nel corso del tempo bruciato  di un’estasi – di un amore e di una sessualità innocenti (perversioni innocenti), eroticamente conturbanti e comunque, per un momento, appaganti. Perciò domina il clima della notte (Notte, interludio della moltitudine / … / Il resto si intravvede appena / perché la coltre del buio lo nasconde), delle sue luci artificiali, consolatorie, abbaglianti, del sonno nella veglia fantasmatica del sogno. E si fa vivo sovente, in lucidità o in dispersione fisica e mentale,  in disperazione, l’amicizia corroborata dalla piètas.

Quelle che vengono presentate come poesie in effetti sono i momenti di uno stesso susseguirsi di stanze, di strofe unitariamente, inesorabilmente, connesse ad una tragica angoscia. Possiamo leggere (una delle tante ipotesi di lettura) alcune poesie, o parti, scelte a caso (entro la dismisura formale apparentemente temporale e dissonante) e non coglierne le scansioni dello hiare, del dialéipö, dell’aprirsi graficamente, in ‘a capo’, e in intervalli di senso:

Quale il segreto / di quella bocca / di quella tua mente imprevedibile? / Sembra che sia tutto alla fine / e cammino senza salvezza / tra le parole.
Gocce di morte / nella pelle avida / Gocce di morte / sulle cicatrici / Gocce di morte / sulla fame che stordisce.
Non limitarsi alla buccia / rugosa / del grande frutto / ma verme goloso, / scavare gallerie / nella polpa! / …
… Si allunga ciò che è andato divorando gli errori. / Il tempo sbagliato mi tenne fuori / in intrighi sotterranei.
… Il gioco dell’arte / e dell’estasi (un incantesimo logoro) / mi stringe e mi abbandona, / si aggrappa all’orlo della notte, / amante / puntata della metà oscura.
Notte, le tre / techno / a quest’ora siamo dei. / (canzone) / tump tumpf tumpf / soffiami cattivi consigli lussuria, intrigami / alla notte che corre… (… ) /  Stessa canzone. E ci aggiriamo come ombre sulla pista, / tra le cicche calpestate / pieni di solitudine.

È, sempre, nel susseguirsi dei versi irregolari, ritmici eppur senza intervalli (se non minime dialefi, in accostamenti dalla esasperata, nervosa, con-fusione logico-asintattica), lo stato mentale e fisico in cui le sensazioni, gli stimoli esterni, sono percepiti al di qua (o decisamente al di là) del velo icastico, ma invisibilmente imprigionante. È la condizione, esasperata e assopita insieme, di chi si sperde, seppur per poco, nel labirinto senza tempo o spazio di un paradiso artificiale (… Ora in un angolo di spazio / vivo come su una fotografia / posso richiamare il passato, / afferrarlo / e regalarlo al vuoto  / d’intorno). 
Eppure si potrebbe credere, come di massima per lo stato di ipnosi, nel rivelarsi di una coscienza primaria. Lo stato, secondo Gerald M.Edelman (Premio Nobel), in cui la «coscienza risulta dall’interazione in tempo reale fra ricordi di correlazioni passate di valori e categorie e imput del mondo presente…». Una perdita di sé e un ritrovamento inspiegato nell’oltrereale.  In cui nasce l’irragione della poesia. Della sua scrittura. Della sua voce.

Scritta a Caterina D’Avinio in occasione dell’uscita della sua raccolta di poesie “Il libro dell’oppio” (Puntoacapo ed., Novi Ligure 2012).

 

 

 

A Luigi Fontanella

Lesa sul Lago Maggiore, 18 agosto 2012

Caro Luigi,
da tempo ho fra le mani, anzi sotto gli occhi, gli occhi della mente, il tuo fascinoso poemetto Bertgang – Fantasia onirica e da tempo voglio scrivertì, sia per ringraziarti, sia per inviarti una mia personale breve, parzialissima, ipotesi di lettura che dovrei anche proporre poi per la pubblicazione nella rubrica “Letterale” della rivista Testuale.

Sinceramente il libro, al di là di questa tua nuova prova poetica, non è di facile sintetica recensione, quando si siano letti e riletti, oltre alla tua Nota d’Autore gli interventi estremamente dotti ed esaustivi (forse fin troppo, talvolta…vengono preclusi anche minimi spazi di ‘ricerca’ per chi legge!) di Giancarlo Pontiggia, Carla Stroppa, Paola Lagazzi. Sotto questo aspetto non rimane che invitare i lettori ad acquistare il libro e a godersi in santa pace, e in libera interpretazione, tutte quelle erudite proposizioni!

Quello che principalmente mi interessa e dovrà interessare – è ovvio! – è la tua poesia. Non senza, certamente prendere atto degli stimoli che in questo caso hanno suggerito la tua fantasia onirica, vale a dire innanzitutto l’immagine pompeiana di Gradiva,  “colei che avanza”  secondo la passionale interpretazione, dettata dalla figura archeologica, di Théophile Gautier e dello studioso Norbert Hanold.  E secondo l’immagine fantasmatica che ti ha sempre affascinato, tanto da fondare anni orsono, e dirigere ancora oggi, una pregevole rivista di saggistica e poesia, appunto intitolata “Gradiva”. E ancora il romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, dell’inizio del ‘900, apprezzato da Freud che interpretò l’opera come delirio erotico onirico. E poi c’è la fanciulla, fra ipotetica realtà e sogno, che apparve ad Hanold, turbato dal ricordo dell’amata in giovinezza Zoe Bertgang (Zoe in greco è la vita), e – veniamo finalmente alla tua poesia – apparve un giorno di quel tuo sogno, a te, in Pompei… O in una trafficata strada di St.Louis?

Della tua distesa, sognante eppur ritmata e animata nel verso, offerta narrativa – segnata dalle molteplici memorie personali, culturali, mitiche – posso trarre (ma tutto il pometto richiederebbe sul piano formale integrali letture e chiose) un passo, fra i molti altri appunto, che mi colpisce  particolarmente:

Fu questo il nostro / ultimo appuntamento. / aveva smesso di piovere / ci avviammo, con il mio animo sgombro, / grazie alla serena Zoe-Gradiva, / mio dolce presente, / verso l’uscita di Pompei. / Trasformata come per incanto / era ora la Via dei Sepolcri / il cielo terso senza nubi rispleneva / nuovamente in alto, / un tappeto d’oro il suo lastricato / tutta l’antica città dissepolta, / invece di cenere e lapilli, / mi appariva coperta / di perle di diamanti… come gli occhi / della mia Zoe Bertgang Gradiva…

E ancora appare assai pertinente una tua affermazione (nella raccolta Oblivion)  riportata da Carla Stroppa:  «[la dionisiaca ispirazione]… è un labirinto di voci che si inseguono l’un l’altra, riflessi di immagini che si moltiplicano e si richiamano. Perdute si ritrovano di colpo, in virtù di un suonosenso che le accomuna… Eco che si rincorre, rimbalza in mille specchi, e fissa reinventata la stessa voce… chiara, trasparente e diretta verso un’unica foce».

Si dichiarano, tra le prime, quattro fondamentali, fondative idee di poesia, la tua poesia in particolare:
la leggerezza dell’animo sgombro;
la pacificata cognizione della morte come vita (la Via dei Sepolcri, andare per… con colei che avanza);
la Storia ridotta in cenere e riscoperta in oro dalla fantasia amorevolmente mitica, quanto, propriamente nel mito rivissuto, e presente;
il labirinto delle rimbalzanti voci rispecchiantesi, che, con chiarezza nella forma inutile (nella sua mai pragmatica naturalezza), si rivelano risorgenti (unica foce) nella poesia.

Ecco come, nella raggiunta fluente continuità di una composizione, sai con pacatezza discorsiva (sottolineata dal ritmo tutto interiore dall’enjambement e dall’anacoluto – risplendeva in alto… un tappeto d’oro il suo lastricato…) accompagnare il lettore attraverso il deserto rifiorito, affiancato al fantasma dolcissimo di Gradiva-Zoe… vera nell’onirico con-fuso (nota il trattino) progredire.

Dirai infine:

L’amore trionfava e / trovava appagamento quel mio delirio, / bello / prezioso / quanto passeggero / come prezioso / bello /  ed effimero / del nostro esistere / è ogni vero incantamento / forza di vivere / attimo eterno.

Il passeggero, quanto in un soffio eternale, incantamento della poesia - tuttavia aggrovigliato perpetuamente alla irragione della vita. E alle sue inspiegate sensazioni.

J.Gasquet, citato da M.Merleau-Ponty in L’Oeil  e l’Esprit - pur dicendo della pittura, ma ciò vale anche per il suono/segno silente della voce -, si riprometteva di rivelare che: « Quel che tento di tradurvi è più misterioso, s’aggroviglia alle radici stesse dell’essere, alla sorgente impalpabile delle sensazioni».

Scritta a Luigi Fontanella leggendo il suo poemetto” Bertgang. Fantasia Onirica”, con gli interventi critici di Giancarlo Pontiggia, Carla Stroppa, Paolo Lagazzi, e una nota dell’Autore (Moretti & Vitali, Bergamo 2012).

 

 

 

A Tomaso Kemeny

Lesa sul Lago Maggiore, 28 agosto 2012

Caro Tomaso,
sto leggendo con grande (meditato) piacere il Poemetto gastronomico e altri nutrimenti. E provo una sensazione che non mi è consueta. Abitualmente la mia maniacale disposizione… testuale mi impone di tenermi lontano da qualsiasi abitudine psicologica della persona dell’autore (che è in realtà la maschera pubblica o privata dell’uomo-poeta), mantenendomi stretto invece quanto più sia possibile alle (il)logiche strutture dei testi, considerati nella loro assoluta linguistica (primigenia) autonomia – quanto più materica sia l’invenzione epifanica . E ciò, sebbene più difficile, anche se mi capiti di conoscere personalmente il medesimo uomo-poeta. Questa volta no! La sapiente ed ironica spontaneità del suo eloquio, forse grazie alla magia della sua sempre leggerissima (a volte   incerta, sapientemente incerta) disponibilità discorsiva, mi riporta continuamente all’amico Tomaso e alla sua umana amichevole disposizione: che tuttavia nulla tralascia della sua sapiente poeticità.

Così, in questo caso, leggendo mi figuro di passeggiare con te ascoltando le tue misurate arguzie, mai per altro gratuite e, talvolta, sorprendentemente risentite e giudiziali. Ciò avviene innanzitutto per il poemetto gastronomico in cui dal felice tono canzonatorio (sazio e persino sensuale e persino mistico) alla Rabelais (ma non manca il sussurro di Orazio!), si passa al severo giudizio sulla malintesa felicità del bere, del mangiare, dell’ingozzarsi – soprattutto là dove si dilapida il piacere in licenzioso deprecabile potere:

… verso l’annerito antro di Dionisio / dal mondo attuale evaso. // Brandisco, indegno, il suo tirso / e conduco gli astri in danza / a respirare il fuoco, anima del vino, / e con le Menadi insaziabile infurio / e celebro in abbodanza il vitigno / che da Troia in Italia recò il pio Enea, / l’Agliànico, dalla cui clonazione / nacquero il Nero d’Avola / (che bevo a garganella tra le ginestre), / il Nebbiolo, il diletto Sangiovese /  rendendo il bel paese / luogo d’elezione della gioia terrestre.

E di contro, più avanti:

… Il cappuccino e la pizza democratica / molciscono il palato di chi fatica, / l’Arte Gastronomica Italiana / s’impone sui tavoli sovrana. / Ma chi arraffa, stupra o reprime / e le indispensabili libertà sopprime, / al nostro tavolo non sieda a brindare / a Gioacchino Rossini, a lui spigliato e lieve / come le magie della vita umana / pur burrascosa e tremendamente breve…

Ma piano piano, andando e tenendo per mano i tuoi versi distesi, il discorso si fa anche più serio, o serioso. E talvolta ancora satirico alla maniera antica, quando pur se facit indignatio versum, si fa sempre strada la tua pacatezza amorosa, la tua, per altro non arrendevole, comprensione. Così incontrando Byron o Foscolo, elogiandoli, non manchi di apostrofarli:

… Tu non rispondi al saluto dei piccoli poeti / e respingi la compagnia dei traditori /… / e di chi si arrende alla cecità dei poteri / che devastano la natura…

Caro Ugo / ancora la parola italiana / è pronta a sciogliersi in bocca / come un bacio profondo e appassionato, / e, se tracciata in versi, / è ancora in grado di mutare la carta / in interminati universi, / ma figli di puttana / celano senza ritegno /  il velo delle Grazie / sotto l’immondezza quotidiana…

E qui, discorrendo, si fa avanti la nostra ridicola se non tragica attualità, che solo la poesia (ma troppi sono i piccoli poeti!) può mutare. Ma

… Tutto brilla di falso / e le macchine posteggiate per le strade / ovunque invadono l’Eden urbano…

Come capita si va infine a parlar di politica, squallida amministrazione… scansando in gincana le automobili che invadono i marciapiedi!  Abilmente percorri con i tuoi versi le disgrazie della polis, delle sue blatere e insieme l’antico valore della lingua italiana tradita, la modesta – non chiedi molto, ma oggi è già troppo – utopia creativa.

La ritrovi per altro ancora nei segni antichi, nella Joie de vivre di Matisse – che ti spinge all’adorazione per il riflesso di uno sguardo femminile.  La ritrovi, la speranza di salvezza, nel tormentato Campana;  persino nelle dolorose ambasce di Céline, nella interiore rivolta di Amleto, nelle rivelazioni epifaniche della illimitata affabulazione di Joyce. E Breton, e Leopardi… e meraviglia – per un poeta della pur rinnovabile tradizione, nelle ramificazioni  musicali e materiche, nel senso di una mistica della materia primigenia, di György Ligeti. Primigenia, perduta e ritrovata: le “Ramifications” per orchestra d’archi. E, mi permetto di ricordarti, in proposito (per perdonare, come reciti, il musico di Colonia, che ci ha narcotizzato per estirparci le radici) il flusso originario, inarrestabile, mistico appunto, del suo corale a cappella “Lux aeterna”.

Ci rechiamo allora a parlar di spazi mentali, di amicizie, di affetti, di amori… Dal capitolo Arcana:

Nel lucore dello spazio mentale / un’immagine appare / fluttuante in un linguaggio inappagato /  teso ad articolarsi col silenzio / smarrito alle origini. / Nel mistero della materia / l’immagine marchia / la soglia sontuosa dell’inafferrabile. // (Quando lo sguardo tatua il visibile / l’immagine si perde / al centro vuoto della tenebra).

Posso dire che questa è, fra le poesie della  (in)variabile raccolta - … nutriente! – quella che mi nutre più di ogni altra? Porta con sé la ragione del tutto: il tutto e il nulla dell’immagine, tanto tangibile, ma, in quanto tangibile, evanescente al centro vuoto della tenebra). Ci sono la materia, la vita, il pieno, la tragedia del vuoto, del nulla, spento (quando si allunghi la mano per toccare) il lucore dello spazio mentale. Ma (prafrasando Merleau-Ponty in L’oeil et l’Esprit), se l’energia della creatività non è un dato acquisito, ciò non è solamente perché passa e scompare come tutte le cose, ma perché in quel lucore ha pressoché tutta la vita dinanzi a sé per rinnovarsi in nuove forme.

E c’è una Vita nuova, quella dell’amore:

Ai primi fremiti dell’aurora / ti bacio e il mondo s’infiora¸/  la notte, invece, in vortici, turbini / e gorghi d’astri s’indora. Ma il tempo / scaturisce ora dal tuo sguardo;  / insieme al mio futuro, di te / il mio passato s’innamora / e a destarmi a nuova vita non tardo / nell’istante che pare eterno / nel tuo sorriso rilucente.

In cui il ritmo dell’enjambement salta vibrante dai vortici, dai gorghi della sognante passione.

La tua, la mia, passeggiata continua, comunque dalla medesime oscurità placata

…perché  ebbro di vita / oltre la notte che sfavilla / insaziata scorro / per le diramazioni del vento / verso quel lampo del silenzio / che a una sillaba divina somiglia.

Ed è propriamente il silenzio a generare una preghiera:

Vieni tu che sei incorporeo e sei tutti i corpi…/…/ Non abbandonare la terra alla desolazione / sii la porta di tutte le nostre aurore

Perciò, vieni tu e vola sotto il sole della devastazione, mentre passeggiando la notte per Milano nevica, e il generale Garibaldi in Largo Cairoli ci appare imbiancato nel suo poetico eroismo. Sebbene le chimere si vendano ormai al supermercato. E cammina cammina in Viale Majno incontriamo la testa candida dell’amico poeta Mario Spinella, che s’aggira cercando invano il suo Ariosto e il suo Gramsci:     

…rincasa la sua fiducia immutata / in ciò che lui chiama / «la lotta quotidiana» / e nella rara grande poesia

Poiché, infine, tutto si riscatta Nell’immensità genuina della lingua, sebbene malgrado l’amore della scriptura un giorno ti sentisti vecchio, confortato tuttavia dai grandi visionari (Dante, Blake, Rimbaud, Thomas, Michelangelo, Goya), evasi nella gioia della liberazione totale. Così mi confessi le tue poetiche passioni, cantando la Cantilena dei fallimenti, quando

Versi d’intensità risolutiva / versi d’intensita sorgiva / cadono nell’indifferenza collettiva.

In via Ascanio Sforza, nella Milano dei Navigli incontriamo una dotta ninfa che, giovinetto, ti mormorò:

… «Devi entrare in una commedia dove Dio esiste, / dove legando le vocali in sequenze dirette / all’estasi incontrerai l’immagine riflessa della Poesia…»

Poetasti, e di poesia vivi ancora soccorso dalla tua Musa che ti invoca di

… sprigionare / il canto della terra che ruota / in un sogno di bellezza impossibile.

Ti aiuta in ciò L’essenza impenetrabile della femminilità, quando riesci ad abbandonarti completamente all’ineffabile verità del desiderio.

In questa notturna passeggiata mi hai raccontato in verità di un tuo desiderio (impossibile) di Stil Novo, di una Vita Nova, talvolta cogliendone velatamente nei versi l’antico modo, senza nascondermi pacati disappunti, delusioni, depressioni, impotenze. Impotenze del tempo. Di questo tempo, di questa nostra età, collettiva e personalissima (De Senectute…).

Ma sempre, infine, rimandi Alla parola, alla sua valenza cosmica e biologica:

La parola sorse / da crateri di luce / e creò un mondo sradicato / dal proprio principio, fino alla fine dei tempi irripetibile. / Ma tu ascolta / solo la parola che scaturisce  / dalle fenditure del tempo / e trapela dai circuiti del silenzio/ nel medesimo fremito celando / carne e polvere.

Così ci lasciamo, abbandonandoci illusoriamente al segno cosmologico e insieme microcosmico del fiat.
           
Scritta a Tomaso Kemeny in occasione dell’uscita del suo  “Poemetto gastronomico e altri nutrimenti” (Jaca Book, Milano 2012.)

 

 

 

A Enzo Minarelli

Lesa sul Lago Maggiore, 7 agosto 2012

Caro Enzo,
sto leggendo il tuo racconto “Amo”. Le tue istruzioni (riportate da un doppio, a sua volta riprese dall’effetivo protagonista) sull’esercizio della copula in  una automobile di media cilindrata, condotta e posteggiata fuori città (possibilmente al sicuro da sadiche rapine).  Non si può dire, come si diceva un tempo, che si tratti di un libro adatto alle educande, anche se oggi le educande, le fanciulle in fiore, o già sbocciate che siano, non appaiano così pudiche, meglio ipocrite, come credono ancora (ma non lo credono veramente) i padri, anzi le madri, della mia generazione. Oggi, per esperienza diretta, per sondaggio statistico o per sapienza psicoanalitica conosciamo tutto delle loro disinibite voglie e delle loro pratiche predisposizioni sovente apertamente manifestate.

Ma c’è qualcosa da dire anche sui maschietti, o maschioni che trovano un rappresentate appropriato nel suddetto protagonista: le cui schiette e cordiali, a volte tuttavia del tutto gratuite scurrilità, sarebbero insopportabili se non fossero sorrette dalla acuta e ironica analisi del narratore, a loro volta ben impastate con la efficace capacità letteraria e analitica dell’autore (che poi saresti tu). A proposito del… merlo maschio di questa storia va osservato che in sostaza appare schiavo, senza capacità di effettiva autonoma reazione, delle folli voglie offerte dalla (comunque sicuramente più intelligente) insaziabile femminuccia. Qui si giustifica il turpiloquio ricercato dei giovani d’oggi che, più o meno consci della loro inferiorità rispetto alla femmina, usano anche senza necessità l’arma della parolaccia… per impressionare meglio la partner! La quale per altro non sembra, quasi mai, colpita, in proposito, più di tanto.

Per inciso potremmo osservare anche che la tua narrazione risponde a classiche modalità, quali i rapporti fra protagonista-narratore-autore. Ma le ragioni stilistico-retorico- creative, fra ipotesi di verità, autobiografia e invenzione, sono già state infinite volte elaborate dalla critica stilistica: in particolare per un campione assoluto di queste medesime ambiguità, Marcel Proust.

C’è poi, a sostegno colto delle tue audacie  scrittorie, una straordinaria tradizione letteraria:  lasciamo stare i latini, ma andiamo pure dal Boccaccio all’Aretino, al Divino Marchese e a Masoch, dai Surrealisti agli scrittori On the road…, a Nabokov… a Céline… Per non dire  del Kamasutra, poiché le modalità copulatorie nel costretto abitacolo di una automobile di media cilindrata  richedono non facili contorsioni fisiche.  Talvolta, forse, gli altri classici nominati, sono, verbalmente, un po’ più metaforicamente discretti rispetto alla tua icastica sincerità - pregio raro proprio questo, tuttavia, della tua narrazione, in cui non mancano puranche le problematiche feticistiche (la vettura stessa e i suoi accessori, le mutandine, gli anticoncezionali, i resti di pasti campestri intramezzati da continue  maniacali riprese erotiche, ecc.). Insomma tutto quello che pochi ormai non sanno, ma avrebbero comunque voluto sapere prima sul sesso… in automobile!

Ma non manca, a movimentare una narrazione che potrebbe apparire ad un certo punto ossessivamente ripetitiva, perciò stancante per il lettore  non più incuriosito poiché ormai sa tutto, l’invenzione descritta in maniera raffinata di un deuteragonista: il voyeur, quello che quasi… professionalmente insegue comunque e ovunque le coppiette copulanti in automobile, ma che nella sua azione guerrigliera ‘mordi e fuggi’ “rimane bloccato in ogni caso, la sua curiosità stagna, non procede, non porta al naturale sbocco della copula, troppo impegnativo, rischierebbe brucianti catastrofi. Ecco perché si ferma, si stoppa, appunto, e non desidera altro che guardare. Solo per guardare, richiede un bel po’ di fatica: individuare i posti migliori, quelli che presentano le già ricordate tracce sul terreno, memorizzare le ore giuste, avere molta pazienza, appostarsi e mimetizzarsi, essere abili nel non farsi scoprire… L’autentico capolavoro di uno stupratore visivo consiste nel violare non visto, l’intimità altrui, esserne in qualche modo compartecipe…”.

Allora si apre un nuovo capitolo delle utilissime istruzioni per il copulante d’automobile: come guardarsi dal guardone! Splendida svolta narrativa! C’è l’inatteso conflitto, e quel páthos di cui parla il linguista Frye!  Ma chi è il guardone, se non la società opprimente che soffoca sesso, amore, intimità, vita?

In quarta di copertina leggo alcune espressioni che ritengo inutile da parte mia parafrasare, tanto sono esaustive ai fini di un metasignificato etico, sociale, libertario: “l’involucro del veicolo… un segreto rifugio dal mondo esterno… minaccioso, incalzante… la berlina di seconda mano un’oasi incontaminata rispetto all’inquinamento collettivo… l’appartarsi da una società barbara e invadente… un’allegoria di freschezza e di verginità vitale…”.

In cui, per altro, tra l’ossessione erotica della coppia protagonista si insinua la volontà di conoscere, conoscendosi: perché i protagonisti sono puranche (la femmina forse di più) dei non volgari creativi, o artisti tout court, a riprova della loro impellente necessità totalizzante di vita.

Ma arriverà il momento che la berlina usata, alcova viaggiante la chiama il protagonista, dovrà essere venduta per pochi soldi… E un mondo di sesso come vita s’andrà spegnendo nel traffico impraticabile, come sempre.

Caro Enzo, che altro dirti? Una coinvolgente storia, che va ben al di là di ogni facile, seppure ironico, erotismo.

Scritta a Enzo Minarelli in occasione dell’uscita del suo romanzo “Amo” (Campanotto Editore, “Zeta Narrativa”, Pasian del Prato, Udine, 2012)